Il postino suona sempre due volte

Ho avuto modo, in questi giorni, di vedere una delle prime copie arrivate in Italia del The Postman Always Rings Twice, il film che Tay Garnett ha tratto dal celebre romanzo di James Cain. Ho visto, in altre parole, l’Ossessione americano, che tutti sanno come dallo stesso romanzo abbia tratto origine il bel film di Luchino Visconti.
Questo di Garnett è un film di un certo spicco nella media piuttosto scadente della produzione americana internazionale; ma che potrebbe rientrare nella più ordinaria amministrazione se, a conferirgli una fisionomia inconsueta non fosse un curioso e sospeso conflitto tra la materia e la formula narrativa che è stata adottata dal regista. Non voglio qui anticipare un giudizio critico — specie trattandosi di un’opera che sarà presentata chissà fra quanto tempo agli spettatori italiani (1) — ma dire solo che proprio le caratteristiche strutturali del film americano suggeriscono e invitano ad un confronto con Ossessione.

Nei riguardi del romanzo di Cain, Garnett s’è attenuto ad un comportamento di eccezionale e diremmo esemplare fedeltà: lo ha tradotto tutto, dalla prima scena all’ultima, in immagini cinematografiche. Ma, se fosse lecito operar siffatte distinzioni nel corpo vivo di un’opera, nel romanzo di Cain si potrebbe distinguere tra materia e supporto narrativo. Lo scrittore americano ha disposto la materia e l’ha coordinata attorno ad una serie di effetti, con una progressività emotiva e contenutistica calcolata e precisa. Volto non tanto alla struttura formale del racconto, quanto alle reazioni che la lettura poteva provocare nel pubblico, Cain ha usato sempre i termini della tensione, delle sospensioni e della sorpresa. Un procedimento la cui efficacia, letterariamente e sul piano dell’arte, noi conosciamo da pochi: da Dostoievski, ad esempio, che leggeva romanzi popolari e pensava Delitto e castigo, come i Misteri di Pietroburgo ai Misteri di Parigi di Sue; o, per fare altri esempi, dal De Marchi de Il cappello del prete e, in tempi più vicini a noi, dal Piovene di Lettere di una novizia. Letterariamente, dicevamo, perché questo procedimento è invece normale nella creazione cinematografica; e sul piano dell’arte, perché la previsione degli effetti è la tecnica della non arte, della Schundliteratur, e del romanzo poliziesco.
Così Cain ha condotto la sua narrazione secondo la cifra del romanzo popolare, e questa tecnica spiega abbondantemente la singolare fortuna che il libro ha trovato, non solo presso il pubblico, ma specialmente presso registi e produttori, i quali in pochi anni, gli hanno dedicato tre diverse edizioni cinematografiche: la francese, l’italiana e ora l’americana. (2)
Altre cose interessavano Visconti che non una, sia pur eccezionale, vicenda giudiziaria. Assunti i personaggi primitivi di Cain come eroi della sua vicenda, il regista italiano li ha confessati, frugati, esplorati e ne ha espresso le ansie, i tormenti, i prepotenti impulsi, dichiarandoli nei loro moventi più reconditi, con una pietà a volte addirittura crudele. Quasi del tutto immemore della cadenza narrativa del romanzo, Visconti ha puntato più che sull’ingranaggio dei fatti sul presentarsi delle cose, sul loro modo di apparire, sulla reazione sempre imprevedibile per cui la loro naturalezza diviene fatalità al contatto con le anime e la loro varia angoscia. Il disegno esteriore, la tecnica più specificamente narrativa s’è rotta deliberatamente sulla via del largo poema sinfonico. E la narrazione, tutta calata nell’ambiente e svolta nei rapporti tra questo e i personaggi, s’è sviluppata secondo questo ampio respiro, con trapassi violenti quando sia giunta a dover puntualizzare i fatti e con amplissime soste quando debba introdurre ambienti e personaggi particolarmente suggestivi.
Per questa via, farcita se si vuole di letteratura, semplificata di sottintesi e di insidie e di riferimenti culturali ed intellettualistici, Visconti è riuscito spesso a toccare l’inoppugnabile e struggente evidenza della poesia.
Tay Garnett, uomo di mestiere più di quanto sia artista, ha giuocato invece tutte le sue carte sull’intrigo, il congegno, the plot — come lo chiamano gli americani. Sì che, mentre nel film italiano tre o quattro scene in un povero commissariato bastavano a render conto delle indagini di polizia, Garnett ha dedicato oltre metà del film ad illustrare il conflitto tra la giustizia e i suoi personaggi. Senza inventare nulla di nuovo rispetto al romanzo, s’è diffuso nel primo tentativo che Frank e Cora fanno per uccidere Nick, nella preparazione dell’assassinio vero e proprio, nei dettagli del processo, nella rivalità tra l’avvocato difensore e il District Attorney che provoca la assoluzione dei due complici, e insomma su tutte le complicate vicende che i lettori del romanzo conoscono. Con questo non si vuol dire che la narrazione ristagni o manchi di efficacia. Al contrario, tutta affidata com’è al collaudato congegno del romanzo, essa è condotta con tale abilità, con una successione così concatenata di colpi di scena, da ottenere quel mordente emotivo, quella violenza diretta e immediata che prende in un’orbita sola le cose e gli spettatori, per non lasciarli più. Il film, con un’asciuttezza e una rapidità non comuni corre deciso alla sua logica conclusione e il pubblico, afferrato alla gola, non può che reagire nel senso previsto.
In questa esemplare condotta narrativa sta il pregio maggiore del film; pregio, del resto, dovuto più che al regista o agli sceneggiatori, allo stesso Cain.
Ma la desolata umanità di personaggi fatti di sangue e di carne come quello del Postino dove è finita? Solo di rado, dietro le spalle degli eroi di Garnett, si possono scorgere quelle ombre inquietanti che tradiscono l’umanità, i pregi e i vizi condannati di quei personaggi, e insieme la personalità dell’artista creatore. Indicazioni precise, in questo senso, può fornircene il finale del film: finale che per voler trarre le conclusioni moralistiche di una vicenda agita di personaggi siffatti, crolla miseramente.
Non è a dire, d’altra parte, che sia mancato a Garnett il contributo di attori capaci: John Garfield, i due avvocati (attori di non comuni capacità e di grande finezza) e Lana Turner hanno fatto del loro meglio. Soprattutto quest’ultima che, in alcuni momenti, ha creato una figura di grande prestigio, attraverso gli scatti improvvisi eppure melodiosi del gestire, attraverso le oscillazioni della voce, i guizzi del corpo, le sospensioni del parlare, obbedienti ad un ritmo interno e segreto.
Per concludere, se il film non ha raggiunto i risultati che forse ci si potevano attendere, e se di una vicenda così basata sul fatto umano e sessuale, sul sangue caldo e i sensi accesi dei personaggi, Tay Garnett ha fatto un racconto poliziesco che, se non fosse per Lana Turner, rischierebbe di riuscir disumano e quasi casto e asessuato, come sono appunto i racconti polizieschi, quanta colpa è del regista e quanta del puritanesimo quacquero e ipocrita del Codice Hays?

Antonio Pietrangeli
(Fotogrammi, Roma 10 Luglio 1946 – immagine e testo archivio in penombra) 

(1) Prima visione italiana ottobre 1947.
(2) La prima versione francese è “Le dernier tournant” diretto da Pierre Chenal nel 1939. 

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