Campo de' Fiori

Roma, luglio 1943

Anna Magnani, finalmente, mi è piaciuta: la sua semplicità trasteverina di Campo de’ Fiori ha un carattere. Se la fiera Anna sapesse quanto guadagna nell’abbandonare certe pose serpentine, non farebbe altro che parti di popolana, venditrice di caldarroste o d’arance, come nel film di Bonnard.

Mi pare persino che in vesti di cotonina o col liso soprabito d’impiegatuccia o la blusetta candida di commessa cambi figura: perdendo sussiego e pompa si snellisca e si trovi a suo agio. Di certo, si fa più espressiva. Di certo, si fa anche più giovane. E persino gli occhi, quando scapoleggia, divengono maliziosi; non più volpini e astuti, ma soavi e morbidi, occhi che sospirano. Allora questa attrice insegna quello che mai e poi mai avrei supposto che potesse insegnare: il pudore. Una delle due sole virtù che Napoleone, il grande, riconosceva nella specie umana: le courage chez l’homme et la pudeur chez la femme. Ma perché Anna Magnani si mostri pudica bisogna che dimetta la toletta, gli abiti sgargianti, le vesti da sera, bisogna che non bazzichi la gente in frac.

È un po’ difficile che ci ascolti. Chi scrive la ricorda presso che debuttante in un atto unico al Teatro Arcimboldi di Milano — titolo: Un uomo, una donna e un milione — strappare applausi da non dire in una parte di “cantoniera” (diciamola con l’Aretino) tutta vezzi smorfie e mignognole; un’interpretazione dosata con intelligenza sottile ed una seducentissima orchestrazione di toni. Dissero allora esperti e pubblico: “questa sarà una grande attrice comica!”. Il vaticinio non si è avverato perché la tempestosa Anna non ha voluto che si avverasse. Si è sbandata, si è spersonalizzata. Non fu né comica né drammatica. Dapprima sulle scene di prosa si diede arie da vamp, di recente con Totò rasentò la soubrette, mossa non esclusa. La snaturò l’ambizione di essere maliarda, di essere passionalmente travolgente e furba, troppo furba.

Anna ha due modi si socchiudere gli occhi: quello che sfoggiava con Totò scarrucolando doppi sensi e sottintesi e quello che palesa in Campo de’ Fiori, dolce come la dolcezza di un palpito. Io opto per il secondo anche se non sgorga da malizie, anche se fluisce soltanto dalla ignorante ingenuità di una venditrice di arance — col grembiule — nel clima fragrante di un pubblico mercato.

Campo de’ Fiori, a proposito, è un film che si distingue per una spiccata attualità. Lo direi un film annonario che imbrocca un aspetto del tempo nostro il quale tanto valorizza i distributori dell’alimentazione.

Questa è la guerra che riscatta ed esalta la manualità ed il prodotto, il fumista e le patate. Questa è l’epoca d’oro dei macellai, dei droghieri, dei salumieri, dei pescivendoli che non avrebbero mai sognato di trasformarsi in personaggi tanto cospicui in un mondo che li colma di lusinghe e sorrisi. I padroni diventano servi al cospetto delle loro ceste e delle loro bilance; sono accolti come si accoglie la Provvidenza con porte che si spalancano, inchini e ossequi e persino le dame non arricciano il naso se qualcuno odora di castrato ed un altro di freschino. Avanti, avanti anche nei saloni con tappeti, anche se rimangono le orme dei passi spietati. Campo de’ Fiori è il peana di questa gente: di Aldo Fabrizi e di Anna Magnani con le arance di Paternò palpeggiate tra le mani.

Ma non per questo, no, che Anna Magnani è bella. È bella (e non mi stancherò di ripeterlo) perché in questa pellicola è pudica, vergognosa, umile e trepida. È bella perché la bellezza è un punto di vista. È bella perché il bello è una cosa di cui è più facile dire ciò che non è, che dire ciò che è.

Giuseppe Bevilacqua

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