Il Mulino del Po di Alberto Lattuada

Allo spettatore cinematografico non può interessare se il film al quale assiste sia stato tratto da una novella, da un romanzo, da un’opera teatrale o se il soggetto sia originale: l’importante, per lui, è che il film sia tale da soddisfarlo. La fonte del soggetto può essere un capolavoro e il risultato cinematografico insoddisfacente, o viceversa: questo non può modificare il giudizio dello spettatore. Così non ha importanza sapere quanta parte del romanzo Il mulino del Po è passata nel film omonimo e come questa parte è raccontata nel libro. Nel film v’è un episodio d’amore, e v’è un episodio sociale. Dell’episodio d’amore non è resa la passione, e non mi pare si possa incolpare gl’interpreti; la deficienza mi pare proprio nella sceneggiatura e nel dialogo: agl’interpreti manca l’occasione, la scena creata e svolta perché possano fare almeno intuire l’intensità del loro amore.

All’episodio sociale non manca certamente l’interesse e la drammaticità dello spunto: il sorgere delle leghe contadine, le prime lotte tra capitale e lavoro, il primo sciopero. L’ambientazione e il fermento di questo scontro d’interessi potevano essere veduti o dal punto di vista socialista o dal punto di vista borghese o dal punto di vista assolutamente obbiettivo. Sceneggiatori e regista non si sono decisi per alcuno di questi tre punti di vista, hanno dato un colpo al cerchio e un colpo alla botte non con un senso di equanimità ma col compiacimento di accontentare un po’ i socialisti e un po’ i borghesi senza dimenticare le lustratine di scarpe al parroco.

La mancanza di decisione — non voglio dire di coraggio — ha nuociuto al film perché non è, ripeto, equanimità. In un racconto che ha andatura seria, non è concepibile, a voler essere equanimi, divertirsi a mettere in ridicolo ora l’una parte ora l’altra. E questo è proprio quanto è stato fatto: i borghesi, l’ufficiale comandante il plotone per il servizio d’ordine, il delegato di pubblica sicurezza, il fondatore della lega socialista, la rappresentante dell’associazione del libero pensiero, alcuni degli stessi contadini, sono caricaturati senza motivo nel quadro di avvenimenti così gravi come quelli che formano l’argomento del film. Solo in operetta questo sarebbe stato consentito, nonostante il cattivo gusto di ridurre a comicità materia umanamente e socialmente drammatica per ambedue le parti.

La limitata fusione dell’episodio sentimentale con quello sociale, la freddezza del racconto e l’intempestività di note caricaturali sono i motivi per i quali il film non appassiona nonostante la sua fattura in varie sequenze pregevoli, come in quella dell’incendio del mulino, bella cinematograficamente e drammaticamente ma sproporzionata per lunghezza nella economia della sceneggiatura generale.

Sarebbe stato più coraggioso e più utile agli effetti artistici rinunziare ad attrici e attori e affidare l’interpretazione a elementi naturali: vere contadine e veri contadini. Perché è inutile illudersi: il risultato è diverso. La Del Poggio si è adoperata con la massima buona volontà per creare il personaggio della mulinara, ha fatto tutto quello che ha potuto, ma basta vederla muoversi, particolarmente correre e gestire per scoprire subito la non mulinara. Non so se questo sia un complimento o il contrario, me è la verità.

Gino Valori

Roma, ottobre 1949

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