Roma città aperta 1945

Finalmente abbiamo visto un film italiano! Intendiamo per film italiano un film che racconti cose nostre, esperienze del nostro paese, fatti che ci riguardino. Rossellini, con « Roma città aperta » ha portato sullo schermo, in immagini vive di cronaca, i giorni di oppressione e di morte che la capitale visse durante il periodo dell’occupazione tedesca. Le sofferenze, le lotte, le ansie di Roma e degli uomini che in Roma guidarono la resistenza, o che della resistenza furono i soldati generosi, ci sono date in via sintetica attraverso le tragiche vicende, che nel giro di un breve periodo di tempo colpiscono alcuni uomini ed alcune donne: un prete patriota, un comunista ex combattente di Spagna, membro della Giunta militare del C.L.N., un operaio tipografo e la sua donna.

Il film inizia con una sequenza densa di movimento e di suggestione. È il primo chiarore dell’alba. Le SS ricercano l’ing. « Manfredi ». Manfredi riesce a sottrarsi alla cattura attraverso una fuga sui tetti. Trova riparo il giorno stesso nella casa di un suo compagno operaio al Quartiere Prenestino. In questa casa avviene il primo incontro tra il militante laico e il sacerdote che ha fatto del suo abito di religioso l’insegna di una lotta effettivamente combattuta per la libertà e la giustizia.

II sacerdote si presta per il collegamento che Manfredi non può realizzare. La mattina dopo, di nuovo le SS, in seguito alla delazione di una ragazza (una ragazza viziosa e perduta, cocainomane, che si era attaccata a Manfredi) circondano la casa del Prenestino e arrestano tutti gli uomini. Fra costoro è l’operaio. Era il giorno della sua felicità e della felicità della sua donna: avrebbero dovuto sposarsi. Le SS lo rendono giorno di morte e di dolore. La donna, nell’inseguire, in una corsa disperata, il camion sul quale sono caricati i razziati, viene colpita dalla fucilata di un tedesco e si abbatte a terra. Appena fuori Roma i prigionieri vengono liberati da un gruppo di partigiani. Ma il cerchio, intorno a Manfredi, si stringe ogni ora di più. Le delazioni si fanno più precise. Viene arrestato di sorpresa, per la strada, insieme al prete. Per non tradire i suoi compagni Manfredi muore in silenzio sotto le torture feroci della SS. Il sacerdote viene fucilato.

Intorno ai personaggi centrali si muove, nel primo tempo, un mondo vivo di uomini e di ambienti che raramente abbiamo visto apparire nella nostra cinematografia: strade squallide, di periferia, ragazzi stracciati ma animosi, donne affaticate da tutti i problemi della vita quotidiana, stanze dalle suppellettili dozzinali, dalle pareti stinte, dai letti carichi di gente infreddolita e misera.

Sono gli ambienti, gli esseri umani che più hanno subìto il « tallone di ferro » durante gli anni dell’oppressione fascista, angoli bui e penosi della nostra vita nazionale che il cinema di una volta, il cinema imbavagliato dal fascismo, doveva per forza ignorare. È bene che in questo film siano stati posti a sfondo delle vicende dei protagonisti: la loro presenza, la loro immagine è già un grido di ribellione e di protesta, Sentiamo che è l’ansia di liberazione di questo mondo a dar forza e sostanza agli atti di Manfredi e del sacerdote e farli resistere alle torture e alla morte, a giustificare, a rendere positivo, umano — direi « storico » — il loro eroismo. I nostri non sono eroi che si sacrificano per un vuoto spirito di avventura, per un dannunziano gusto del rischio e del pericolo, anche nel secondo tempo, quando rimarranno a combattere, fra le unghie del nemico, ricorderanno per chi lottano e per chi si sacrificano. Il mondo che è dietro di loro li fa resistere e gli orienta nel senso giusto, le responsabilità di cui son carichi non permettono loro divagazioni retoriche o motti « memorabili »; le poche parole che pronunceranno saranno parole di verità e di equilibrio: il prete non si lascerà ingannare dalle insinuazioni e dalle ingiurie contro il militante comunista, il « senza-dio », e risponderà che le vie per combattere il male e l’ingiustizia possono essere infinite; e il comunista terrà fede all’impegno stretto con i suoi compagni di lotta monarchici malgrado la retorica antireazionaria del suo carnefice.

Molti hanno rilevato una superiorità del primo tempo rispetto al secondo. D’accordo che il primo tempo è molto più ricco del secondo di figure e di ambienti ad anche cinematograficamente più sciolto. D’accordo che su Via Tasso si è un tantino calcata la mano, quando ad un’artista più profondo sarebbero stati sufficienti pochi tratti. Ma a me sembra che su questa strada si arriverebbe troppo presto a trovar sommari ed ingiustificati molti altri passaggi, poco chiari diversi nodi del racconto (le delazioni, i movimenti psicologici del personaggio che determina la catastrofe: la ragazza) e cinematograficamente non sfruttate delle ottime possibilità, delle interessantissime situazioni anche del primo tempo (la liberazione dei prigionieri, girata un po’ troppo alla garibaldina). A me sembra, insomma, che su questa strada si arriverebbe troppo presto a sfondare delle porte che il regista e lo sceneggiatore hanno lasciato a bella posta aperte per poter raggiungere un altro obbiettivo: quello di una semplicità, di una immediatezza, di una stringatezza e di una velocità di racconto insolite ed invidiabili.

Raggiungere questo obbiettivo significa oggi, per un regista italiano, poter offrire al nostro cinema quelle doti di comunicativa, di persuasività larga, popolare che finora gli sono mancate, anche nelle opere dei migliori, e che sole possono garantirgli un successo nazionale e soprattutto internazionale. I popoli oggi non vogliono un cinema vuoto e sciatto, ma non vogliono nemmeno un cinema di esteti. ll merito essenziale di Rossellini è di aver trovato il ritmo, il movimento più atto a rendere accessibili a vaste masse di pubblico i nuovi contenuti dei quali il film è messaggero, ad adeguarli alle sensibilità più diverse.

« Roma Città aperta » è una vittoria sugli scettici e sui becchini del nostro cinema. Il suo successo, d’altra parte, non è il prodotto di una complicata alchimia. Direi che potrà essere l’uovo di Colombo della nostra nuova rinascita. Come dicevo all’inizio « Roma Città aperta » è un film italiano perché parla di cose nostre. E proprio per questo piace al pubblico, proprio per questo gli americani l’hanno comperato. I produttori italiani hanno paura di far pronunciare ai personaggi del mostro cinema parole di democrazia e di progresso: le parole di rivolta di questi personaggi fanno affollare le nostre sale da milioni di italiani e non spaventano gli americani, ci guadagnano piuttosto la loro simpatia e i loro dollari.

Non abbiamo attori: proviamo ad immergere nella realtà i nostri « volti » più noti e li riavremo in qualche modo nuovi, come è accaduto nei momenti migliori di questo film, per Fabrizi e per la Magnani ed anche per Feist.

Il mondo oggi non vuole dei divi, cerca degli uomini, gente della strada. Così hanno saputo essere, anche se spesso guidati troppo superficialmente, Grandjacquet, Pagliero, il piccolo Annichiarico, Maria Michi, Ia Galletti.

Carlo Lizzani

Roma, novembre 1945

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