Milano, novembre 1945
Uscire dai cinema Diana o Filodrammatici, Meravigli e Corso, dove in questa settimana si rappresentano i film di cui sopra (si tratta di 3 film americani: Amore per appuntamento di William A. Seiter, L’incubo Tim Whelan, Senza mamma di William Nigh n.d.c.) e capitare nuovamente all’Odeon, dove da alcuni giorni con crescente successo si proietta un film, Roma città aperta, che è un film italiano, è una delle soddisfazioni di questi mesi, una soddisfazione così bella che forse è anche, del film stesso, il primo chiaro significato. Film per il quale siamo contenti di rifiutare una critica oggettiva e fredda.
Hanno detto che Rossellini, il regista, muove e manovra Pagliero, l’attore che interpreta la figura dell’ingegnere comunista, un po’ sulla linea di Gabin. (Potevano anche dire che l’inizio del film arieggia quello di Pépé le Moko. Chi ha parlato di una scissione tra la prima e la seconda parte, rilevando della retorica e del sadico irrisolto nelle scene di tortura (forse il film è stato ridotto nell’edizione milanese, e così va bene): chi ha ricordato l’inserirsi di Rossellini (regista, non dimentichiamolo, di opere discrete quali La nave bianca e Un pilota ritorna) nella tradizione documentaristica di De Robertis, nella vena di Uomini sul fondo e di Alfa Tau, affidandolo così al novero dei nostri migliori, sui quali potrà sempre contare il cinema italiano (anche di fronte all’estero, dal momento che Roma, città aperta è stato celermente acquistato dagli americani). Ma che senso ha tutto questo? Che cos’hanno in comune i vasti problemi umani agitati da questo film con il gusto un po’ sordido, pignolesco, persino raffinato degli emenderai quasi perfetti di De Robertis, con quella che Teofrasto direbbe forse sua classica “piccineria morale”? Perché in diversi momenti di questo film ci si serra la gola e, quando la visione è finita, ci rimane il campo aperto a discussioni senza fine, non sul film e per il film, ma che dal film hanno origine, e seguendo le quali ci porteremmo a discutere addirittura della nostra posizione umana e delle ragioni di essa, e delle necessità e soddisfazioni e inutili e vacue disperazioni ad essa connaturate e reali? perché il film non ci lascia crogiolare in una sua parabola, più o meno valida e raggiunta, di stile, ma ci perseguita dopo, e ci dice qualche cosa che ci entra dentro e che non possiamo più ignorare?
So che Rossellini non è un Pabst, so che non ha fatto e non potrà fare mai un Kameradschaft. So benissimo che molta parte del film è su un piano quasi mediocre. Ma, suvvia, non dimentichiamo che con queste immagini Rossellini parla al pubblico italiano parole chiare, prende una posizione decisa, afferma delle cose incontrovertibili che noi stessi abbiamo sofferto e soffriamo sulla nostra carne e sul nostro spirito, e le afferma con una recisa convinzione, e con una tale chiarezza che bisognerebbe essere ciechi, o insensibili, per non avvertirle. Non ha fatto della retorica e ci ha dato, a noi italiani, quella retorica che, se vogliono, rimane la nostra, e che siamo ben lieti di accettare. E proprio i tedeschi, i piatti, rigidi, obbligatissimi tedeschi che hanno troppo spesso accusato noi per la nostra anima e per il nostro cuore, essi stessi si sono sempre mossi sopra un piano di tale esagitata, assoluta, vuotissima retorica, da trovare adesso il vuoto dentro di sé, ora che hanno sciupato quelle esteriorità, che hanno perduto quei gonfi ideali: non sanno più dove dirigersi, adesso veramente non capiscono più che cosa vivono e come e perché e fin quando vivono. Ma per noi non è così: per noi rimane quel tanto che, lo so, non è ancora risolto: ma che nella sua estrema dialettica è segno di vitalità, che ci concede un poco di vera fiducia per cui possiamo ancora sperare nell’avvenire.
Questo mi pare sia il senso più evidente di Roma, città aperta. In questo film manca Roma, ma la Magnani è riuscita a non farci odiare il dialetto romano. E i tedeschi erano così convenzionali nella realtà, che riportarli tali e quali significava renderli convenzionali anche sullo schermo! Ma colui che ha cospirato veramente, io credo debba fremere a sentire le loro voci, quelle voci aspre, rotolanti, irrimediabili per le quali Dovzhenko ha detto: battono nelle nostre anime. Tuttavia, adesso che quelle voci hanno finito di risuonare, è forse il caso di chiederci: come si sono svegliate queste nostre anime, dove si sono indirizzate, quale giovamento hanno tratto dalle passate esperienze?
Ecco perché quei bambini (per il resto abbastanza convenzionali) che nel finale del film camminano nell’alba, dopo l’esecuzione del prete che ha cospirato, ci sembrano veramente muovere i primi passi, e donano a quelle inquadrature un volto di appassionante attualità.
Vice